Si dice che quando scoppia una guerra la prima vittima è la verità; ogni parte, infatti, ha la sua verità, anche nel nostro Risorgimento è accaduto qualcosa di simile e anche in terra apuana, sebbene teatro minore della seconda guerra di indipendenza.

Ognuno la racconta a modo suo, o tace a modo suo.

Correva l’anno 1859, il Cavour stava orchestrando l’attacco all’Austria, senza commettere gli errori che avevano portato al disastro della campagna 1848-1849. Con la partecipazione alla guerra di Crimea, si era scavata una nicchia diplomatica tra le potenze europee; un patto con la Francia di Napoleone III, prevedeva l’entrata in guerra del regno transalpino accanto al regno di Sardegna, a condizione che fosse questo ad essere attaccato.

Nella primavera del 1859 si escogitava ogni mezzo per provocare gli austriaci, sull’altra sponda del Ticino, con un piano preordinato che avrebbe ostacolato le truppe asburgiche fino all’arrivo dei francesi sul fronte. Così avvenne, le continue manovre militari piemontesi al confine fecero saltare i nervi ai comandi austriaci che caddero nella trappola: il 29 aprile 1859 varcarono il Ticino, dando inizio alla seconda guerra di indipendenza. Il resto della storia è noto.

Quello che è poco noto è che la provocazione della guerra poteva avvenire nelle terre di Massa e Carrara. Innanzi tutto un piano apposito qualcuno lo aveva pensato. I nostri territori dovevano essere il casus belli ricercato da Napoleone III. Il “grido di dolore” del famoso proclama, riguardava Massa e Carrara. Il Cavour così scriveva a Vittorio Emanuele II “ .. apres avoir voyagé dans toute la Péninsule sans succès, nous arrivames presque sans nos en douter a Massa et Carrara, et la nous decouvrimes ce que nous cherchions avec tant ardeur”.  (“… dopo aver viaggiato per tutta la Penisola senza successo, arrivammo quasi senza dubitarne a Massa e Carrara, e lì scoprimmo ciò che cercavamo con tanto ardore”)

Questo era noto alle autorità del ducato Asburgo – estense. Notoriamente il Carrarese era terra turbolenta e ne aveva dato dimostrazione a partire dai moti del 1831 fino agli stati d’assedio degli anni cinquanta. Non c’era posto migliore dove attaccar briga. Motivi logistici (impantanare gli austriaci nelle risaie, uso dei treni ecc.) fecero invece preferire la pianura padana come teatro di guerra, però, se qualcuno avesse denunciato certi fatti, la scintilla avrebbe potuto benissimo scattare sulla Parmignola anziché sul Ticino.

LE PROVOCAZIONI

Le forze estensi, erano in allerta dal gennaio 1959, quando Francesco V inviò rinforzi “Oltreapennino”: ai poco meno di 600 uomini di stanza a Massa Carrara e dintorni si aggiunse la 1^ divisione (300 soldati) di stanza a Reggio al comando del famigerato tenete colonnello Giuseppe Casoni e, a questi, il maggiore Messori passò il comando della piazza di Massa. Inoltre si rinforzarono Fivizzano, Fosdinovo ed i fortini delle Lame a Stadano di Aulla (la Chiusa e il Bernino, quest’ultimo si vede ancora dall’autostrada). Una forza di circa 1200 effettivi.

Dopo un primo momento di sottovalutazione, il clima era cambiato a Febbraio. A Sarzana, fuorusciti di Massa e Carrara e loro sostenitori locali aggredivano elementi vicini al governo estense. Il 13 febbraio la guardia nazionale di Santo Stefano marciava provocatoriamente verso il fronte di Caprigliola .

Il 16, un gruppo di armati irregolari si portò sul monte della Bastia, poco sopra al castello di Moneta sul confine carrarese e vi piantò il tricolore. Uno di essi affrontò una pattuglia modenese, dicendogli “chi loro avesse il coraggio di andarla a levare”. L’individuo fu arrestato ma i compagni spararono al grido di viva Garibaldi. La pattuglia dovette ritirarsi ma quelli sparati il 16 Febbraio furono “i primi colpi di fucile” della guerra, come affermato dall’imperatore Francesco Giuseppe in una lettera al duca di Modena.

C’era in effetti il timore che il Piemonte accampasse pretesti per sostenere di essere stato attaccato e, con un dispaccio del 21 febbraio, si raccomandava di mandare in perlustrazione solo sottuficiali sperimentati e prudenti.

Nella primavera il morale degli estensi precipitava, i nervi a fior di pelle provocavano un morto presso Carrara il 21 marzo per il fuoco di una pattuglia contro un gruppo di persone che cantava canzoni sediziose (certo Lorenzo Cerutti di Puccinetta); il giorno dopo uno sberleffo in risposta ad un altolà provocava un ferito a Fossola. Una relazione del 1 Aprile rilevava come un sempre maggior numero di persone degli stati estensi e parmensi fuggisse nel regno di Sardegna (il laboratorio Bienaimé non aveva più maestranze sufficienti), e che erano sempre più i tricolori piantati lungo i confini e rimossi dai dragoni. Fece scalpore poi la diserzione in massa dell’intero picchetto di cacciatori al confine di Caniparola, avvenuto il 14 aprile, ma era solo il caso più eclatante di una lunga serie

L’affidabilità dell’armata del Granduca di Toscana era dubbia. Il 16 aprile, le autorità avevano assistito senza reagire ad un imbarco di volontari nel porto di Livorno alla volta di Genova.

Ma Il fatto più clamoroso avvenne il 19 Aprile: una cinquantina di soldati granducali, dopo aver disertato nella notte dai distaccamenti di Pisa e Lucca, marciarono con armi e bagagli verso gli stati di Massa e Carrara. Passarono il confine presso Porta e, malgrado gli avvisi, non incontrarono resistenza poi, beffardamente, attraversarono il paese di Avenza in fila per cinque al rullo del tamburo e col tricolore in testa alla colonna. Il tutto sotto il naso del distaccamento dei dragoni di Avenza i quali si limitarono a seguirli a distanza finché non oltrepassarono il confine sarzanese. Da notare che il comando della piazza di Lucca ritirò l’ordine dato ad uno squadrone di cavalleggeri di inseguire i disertori, perché c’era il rischio non tornasse neppure quello.

Il 25 Aprile veniva segnalata una nave francese nel porto della Spezia, con stato di allerta a Sarzana; ciò portò il Casoni a preparare le truppe per il ritiro. Il 26, mentre a Firenze una imponente manifestazione rendeva ancor più agonizzante il regime granducale, dalla parte di Fontia una folla di fuorusciti di 200 persone invadeva il carrarese sequestrando una trentina di fucili alla Milizia di Riserva (milizia locale volontaria, che sostituiva i cacciatori ritirati in caserma), furono poi respinti oltre confine dai rinforzi inviati dal Casoni, ma la misura era colma.

Il 27 mattina fu tagliato il cavo telegrafico tra Massa e Carrara ed il maggiore Messori comunicava al Casoni che non si poteva aggiustare per l’opposizione dei carrarini, perfino delle donne (un anticipo del 7 luglio ’44 ?). C’era minaccia di sommossa. Il duca Francesco V, si decise a dare l’ordine di ripiegare su Fivizzano. In effetti quasi contemporaneamente Leopoldo II di Lorena fuggiva da Firenze e, a questo punto, Massa e Carrara rischiavano di essere strette tra Toscana e Piemonte.

Alle 16 e 30 le truppe di stanza a Massa, dopo avere inchiodato i pezzi delle batterie costiere e del castello di Massa, si riunirono a quelle di Carrara. Alle 17 circa, tra due ali di folla silenziosa “i todeschi” come i militari estensi venivano chiamati in città (anche se italianissimi), lasciavano definitivamente Carrara lungo la via della Spolverina per Fivizzano (con breve sosta a Gragnana per rifornirsi di tabacco e generi di ristoro).

La stessa sera del 27 Aprile, reparti della Guardia Nazionale di Sarzana, Castelnuovo, Ortonovo, Arcola e Lerici (con molti fuorusciti apuani) entrarono negli stati di Massa e Carrara e presidiarono i centri maggiori. Questa fu una vera e propria invasione ma non fu denunciata come tale.

E’ da notare come durante tutto il periodo di incubazione della vicenda, si sia evitato di dichiarare la violazione dei confini per responsabilità del Regno di Sardegna, malgrado ne ricorressero più volte gli estremi.

Era evidente che si voleva evitare ad ogni costo che la guerra scoppiasse negli stati di Massa e Carrara come il Cavour aveva pensato qualche tempo prima.

Finiva così la lunga presenza estense negli stati di Massa e Carrara caratterizzata da un clima di feroce repressione attuata dagli estensi con due proclamazioni di stato d’assedio (1855-56 e 1857-58). Il secondo fu particolarmente duro in quanto furono comminate un centinaio di condanne assommanti a diversi secoli di carcere, migliaia di frustate inflitte pubblicamente al “pradet” presso il palazzo del Principe (dove oggi è il monumento a Pietro Tacca) e ben sette condanne a morte, di cui due commutate in ergastolo e cinque eseguite: Egidio Lodovici, Giuseppe Cozzani, i castelpoggini Adriano Partigliani, Gioacchino Pucciarelli e il colonnatese Sebastiano Guadagni. Le memorie delle famiglie carraresi tramandano ancora la viltà con cui fu estorta al Lodovici la confessione, con falsa promessa della liberazione. Mentre il frate gli si avvicinava per i conforti religiosi il Lodovici gridò “fuoco!” al plotone di esecuzione. Questo comportamento sconvolse lo stesso Francesco V tanto da raccomandare al plenipotenziario Wiederkern di evitare che i condannati dessero questo esempio di fierezza senza conciliarsi con Dio, sarebbe stato controproducente, e disturbò persino il Vescovo perché intervenisse. Le ultime sentenze di condanna al carcere furono emesse il 2 Marzo 1859, alla vigilia della 2^ guerra di indipendenza quando, di fatto, vigeva un nuovo stato d’assedio.

(nell’immagine il tenente colonnello Giuseppe Casoni)

CONTINUA…

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